Tratto da Treccani.

Dal punto di vista politico e normativo, gli anni Ottanta sono stati determinanti per la diffusione delle tematiche su tecnologie e processi puliti e per l’avvio di importanti studi in materia, mentre a livello progettuale e ancor più industriale non si sono evidenziati prodotti significativi e testimonianze di una qualche tendenza al cambiamento, né tipologico (e, quindi, comportamentale), né tanto meno formale, verso la definizione di una nuova estetica sostenibile, allora tanto declamata e ricercata. Un significativo passo avanti rispetto alla decisiva definizione del Rapporto Brundtland è arrivato dalla strategia per un vivere sostenibile realizzata congiuntamente dalla World Conservation Union (la cui sigla ufficiale, IUCN, è quella del vecchio nome dell’organizzazione, International Union for Conservation of Nature), dall’United Nations Environment Programme (UNEP) e dal World Wildlife Fund (WWF): Caring for the Earth. A strategy for sustainable living (1991). Essa fornisce una precisazione ulteriore sul concetto di sviluppo sostenibile, che viene definito come il miglioramento della qualità della vita umana entro la capacità di carico degli ecosistemi, ovvero la capacità naturale che un ecosistema possiede di assicurare produzione di energia e di materie prime, a fini economici, senza impoverirsi e senza degradarsi. Il programma offre oltre 130 proposte operative da attuarsi a tutti i livelli: locale, comunitario, regionale, nazionale e internazionale. La parola “sviluppo”, sovente legata alla forma economica delle società umane, è qui sostituita con il termine “vivere”, in grado di comprendere appieno i concetti di stile di vita quotidiana e di responsabilità che ciascuno dovrebbe adottare per evitare eccessi nel proprio impatto sull’ambiente.

Nella storia del design vengono ricordati gli esponenti del movimento inglese Arts and Crafts (1859-1900) come i primi ad aver segnalato e criticato il degrado ambientale, aprendo un forte dibattito sui cambiamenti generati dall’espansione della produzione di tipo industriale. Uno dei fondatori del movimento, William Morris (1834-1896), nell’occuparsi del rapporto tra industria e artigianato, pur teorizzando, di fatto, un ritorno alle capacità produttive di quest’ultimo, intraprese una serie di attività culturali e pratiche che avevano come obiettivo il raggiungimento di una migliore qualità della vita, degli oggetti e degli ambienti. Arrivò a prefigurare una società ideale in cui natura, luoghi di produzione e abitazioni avrebbero trovato un equilibrio e l’artigianato avrebbe conquistato una nuova ragion d’essere, sia accettando di collaborare con l’industria, sia riconoscendo il valore della progettazione come fondamentale premessa alla produzione in serie.

Nel corso del Ventesimo secolo, Alvar Aalto (1898-1976) pose al centro dei suoi lavori, alla pari con altri elementi, anche il rispetto per l’ambiente. Lo stesso fecero molti altri progettisti, seguendo quelle che oggi vengono indicate come le regole base per una progettazione che tenga conto della sostenibilità ambientale: alcuni in modo dichiarato (così come molte aziende storiche del design internazionale), altri in modo inconscio. Nel ricostruire il percorso del dibattito teorico – che ha visto l’Italia importante protagonista – fra gli scritti di Vittorio Gregotti va ricordato quello dedicato al design, da cui la seguente citazione: «Nulla si crea, nulla si distrugge: tuttavia, tutto si accumula, in attesa di essere trasformato. Non ci sono solo più i cimiteri degli uomini, dei cani e degli elefanti: tutta la nostra periferia urbana è un cimitero di oggetti. Ciò che è partorito dalle strutture produttive decentrate confluisce nei centri di consumo, passa attraverso gli stadi della utilizzazione di prima, seconda e terza mano, e si ferma, scheletrame, a metà strada, attendendo che torni conveniente il suo ricupero» (Periferia di rifiuti, 1965). Victor Papanek (1927-1999) nel 1971 sosteneva il ruolo e la responsabilità del progettista nel proporre le necessarie trasformazioni della società (Design for the real world. Human ecology and social change, 1973). Tale pensiero era condiviso dal sociologo Tomás Maldonado (La speranza progettuale. Ambiente e società, 1970), che denunciava la degradazione dell’ambiente fisico ponendolo in relazione al nichilismo politico e culturale del dissenso giovanile, alle violenze della razionalità tecnocratica, alle fughe utopistiche o conformiste della progettazione ambientale, al grado di autonomia degli intellettuali nella società tardocapitalista e, infine, al rapporto tra progettazione e rivoluzione. L’obiettivo di Maldonado era, quindi, dimostrare che per agire contro le cause e gli effetti della nostra situazione ambientale si deve sempre iniziare recuperando la speranza progettuale, in altre parole, riconducendo su nuove basi la nostra fiducia nella funzione rivoluzionaria della razionalità applicata. Analogamente, Gillo Dorfles definiva il consumismo «condizione entropica che tende a dominare l’economia e la mentalità stessa dell’uomo occidentale. […] La situazione richiede anche importanti modificazioni nella concezione dell’oggetto industriale, nella sua progettazione e distribuzione» (Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie, 1972).

Gli anni Settanta, dal punto di vista del progetto e della produzione, sono stati, quindi, segnati da queste riflessioni teoriche e dalla volontà di inquinare di meno, che ha portato alle esperienze di autoproduzione di Enzo Mari (1932). Iniziative certamente interessanti dal punto di vista didattico e della ricerca, che si inserivano in un’idea di austerità suggerita in un’intervista di Andrea Branzi a Maldonado (Progettare contro lo sperpero, 1978). In sintesi, se il dibattito degli anni Settanta ha riguardato l’ambiente in contrapposizione alla crescita economica e quello degli anni Ottanta non ha avuto particolari ricadute progettuali, negli anni Novanta l’attenzione si è concentrata sulla crescita e lo sviluppo, considerati come miglioramento della nostra qualità della vita a livello mondiale. Ne è conseguito, quindi, un atteggiamento progettuale rivolto a fattori di controllo ed efficienza delle tecnologie, dei materiali e dei prodotti, rimanendo indiscusso il ritorno all’austerità.

La mostra Il giardino delle cose, curata da Ezio Manzini e presentata alla Triennale di Milano del 1992 (con l’omonima videoambientazione di Fabio Cirifino e Paolo Rosa di Studio azzurro), ha proposto la metafora di un mondo possibile in quanto sostenibile, la ricerca di una nuova ecologia dell’artificiale dove i vincoli ambientali offrono alla cultura del progetto la straordinaria occasione di proporre soluzioni diverse, basate su rinnovati criteri di qualità. Le riflessioni sulle strategie inerenti la “qualità della materia” suggeriscono approcci divenuti oggi caratteristiche essenziali del buon design contemporaneo: la riduzione della materia e dell’energia necessaria all’allungamento del ciclo di vita dei prodotti, ma anche, in alternativa, la produzione di oggetti dal ciclo di vita breve, altamente riciclabili (strategia della “materia medium”), e la strategia del “fare e disfare”, dove le singole parti dei prodotti possono essere valorizzate all’interno di nuovi cicli produttivi. Agli oggetti da consumare si contrappone il prodotto servizio, suggerendo un’idea di smaterializzazione che indica nuovi riferimenti di valore per i prodotti nati dal rapporto oggetto-utilizzatore.

Il catalogo interattivo in CD-ROM, Eco-design. Oggetti, processi, materiali (supplemento al videogiornale elettronico ARCHInote, 1995), curato da Luigi Bistagnino e Carla Lanzavecchia, è una prima testimonianza dell’avvio di una produzione di oggetti pensati secondo le linee-guida dell’ecodesign. Se da un lato in questo periodo ci si è concentrati sulla qualità della materia, dall’altro la questione ambientale ha iniziato a essere affrontata secondo una visione complessa e sistemica.

Medardo Chiapponi ha riproposto anche in Italia, nel settore progettuale, l’idea di una visione sistemica del problema ambientale e, quindi, le possibili soluzioni. «Siamo ben lontani – egli sostiene – da una natura primordiale, immutevole ed estranea. Ci troviamo, piuttosto, di fronte a un sistema ambientale destinato a trasformarsi e a mutare continuamente per effetto delle azioni e delle reazioni che si svolgono tra le parti che lo costituiscono e tra ognuna di esse e la totalità» (Ambiente: gestione e strategia. Un contributo alla teoria della progettazione ambientale, 1989).

A livello internazionale, Gunter Pauli e Heitor Gurgulino de Souza fondando nel 1994 l’istituto di ricerca Zero Emission Research and Initiatives (ZERI), nato dall’idea che progresso e scienza non siano mali da estirpare, hanno proposto un metodo che permette di incorporare nel progresso sia il rispetto per l’ambiente, sia le tecniche usate dalla natura stessa, rendendo di fatto il processo produttivo parte di un ecosistema. Proprio in questa direzione si sta concentrando la ricerca accademica: il Politecnico di Torino, per esesempio, ha messo a punto una metodologia per la progettazione e la produzione con approccio sistemico che permette di gestire quantitativamente e qualitativamente tutto ciò che viene coinvolto realmente in un processo, al fine di coordinare ogni fase del percorso produttivo, di verificare le relazioni con altri cicli produttivi e di evitare scarti di ogni genere.

Si è assistito, quindi, al passaggio dal termine “ecosviluppo”, coniato in occasione della conferenza dell’ONU sull’ambiente umano tenutasi a Stoccolma nel 1972, all’espressione “sviluppo sostenibile, che ha sancito lo spostamento dal piano locale a quello globale: i problemi ambientali dovuti allo sviluppo non hanno conseguenze solo sul territorio considerato, ma investono l’intero pianeta, richiedendo, appunto, un approccio globale per la loro risoluzione.