Nell’ultimo periodo l’attenzione internazionale si è concentrata, tra mille contraddizioni, sull’inquinamento negli oceani e nei mari, ma la scelta di celebrare la Giornata Mondiale dell’Ambiente 2018 in India appare discutibile: è di pochi mesi fa, infatti, la notizia che l’India ha superato la Cina e, ormai, è al primo posto mondiale tra i paesi “inquinanti”.

Dopo il fallimento delle politiche sulla riduzione delle emissioni di CO2 (anidride carbonica, o biossido di carbonio) (dopo le promesse di Parigi e l’uscita dagli accordi degli Stati Uniti d’America, la situazione è nettamente peggiorata), quest’anno si è pensato di concentrare l’attenzione dei media sul problema “plastica”. L’edizione 2018 della ricorrenza è ospitata dall’India e lo slogan è Beat Plastic Pollution, sconfiggi l’inquinamento della plastica.

Sulla terraferma vengono utilizzati 500 miliardi di sacchetti di plastica e vengono acquistate 1 milione di bottiglie di plastica ogni minuto. Ogni anno, nel mondo, finiscono in mare 8 milioni di tonnellate di plastica. Per questo, da anni si parla di inquinamento causato dalla plastica, di riutilizzo, di riciclaggio e dell’impatto sull’ambiente che causa l’uso di oggetti in plastica, appunto.

Nell’ultimo periodo l’attenzione si è concentrata sulla plastica negli oceani e nei mari. Con la Giornata Mondiale dell’Ambiente, che si è celebrata il 5 giugno, l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) ha invitato i governi di tutto il mondo ad adottare soluzioni a questo problema.

Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, “la protezione e il miglioramento dell’ambiente è una questione di grande importanza, che colpisce il benessere delle popolazioni e lo sviluppo economico in tutto il mondo”, e “questo tema incoraggia i governi, le industrie, le comunità e gli individui a esplorare insieme delle alternative sostenibili, al fine di ridurre urgentemente la produzione e l’utilizzo eccessivo di plastiche monouso, responsabili dell’inquinamento degli oceani e che rappresentano una minaccia per la salute”.

In realtà, il problema legato alla plastica in mare non è una novità. Nel 2015 la risoluzione “Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development” prevedeva per gli Stati membri dell’ONU l’impegno “a proteggere in modo sostenibile il pianeta e le risorse naturali”. Gli obiettivi 4 e 5 riguardavano proprio la salvaguardia degli ecosistemi acquatici e terrestri e la conservazione in maniera sostenibile delle risorse marine e terrestri.

Il fenomeno del beach littering è una storia vecchia: già nel 2011, Charles Moore aveva scritto un libro dal titolo Plastic Ocean (edito in Italia da Feltrinelli nel 2013), in cui denunciava la presenza non di uno, ma di diversi “continenti” di rifiuti plastici negli oceani. Nel 2016 sono stati diffusi i risultati di uno studio che parlava di una densità dei rifiuti in mare di 58 ogni chilometro quadrato. E la più alta era proprio nel Mar Tirreno (62 rifiuti/km2). Già allora era chiaro che il 96% dei rifiuti galleggianti è costituito da plastiche. In Italia, le ricerche condotte da Legambiente con Goletta Verde nel Mar Mediterraneo hanno dimostrato che “il 96% dei rifiuti galleggianti nei nostri mari è plastica.

Una densità pari a 58 rifiuti per ogni chilometro quadrato di mare con punte di 62 nel Mar Tirreno”. Tra i rifiuti più comuni sono stati individuate buste (16,2%), teli (9,6%), reti e lenze (3,6%), frammenti di polistirolo (3,1%) e bottiglie (2,5%). Una stima che riguarda tutto il Mar Mediterraneo parla di “almeno 250 miliardi di frammenti di plastica”.

A quanto sembra, però, in quel periodo gli occhi di tutti erano concentrati su altri problemi come le emissioni di CO2, che divennero il tema della stragrande maggioranza dei dibattiti sull’ambiente per diversi anni. L’apice fu nel 2015 con la COP 21 (Conference of the Parties, Conferenza delle Parti) a Parigi.

Tutti i leader mondiali impegnati a sottoscrivere un impegno per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Ma il cambio al vertice della Casa Bianca, e il cambio di politiche ambientali adottate dal nuovo presidente Donald Trump, produsse un cambiamento notevole: l’anno successivo, e poi nel 2017, buona parte dei lavori delle COP sono serviti a cercare di trovare una soluzione per evitare la fuga di altri dall’accordo.

Intanto, le emissioni di CO2 (e, di conseguenza, l’aumento delle temperature medie globali), lungi dal diminuire, sono cresciute: secondo i dati dell’ACEA, l’Associazione dei Costruttori Europei di Automobili, e dell’EEA, l’European Environment Agency (Agenzia Europea dell’Ambiente), nel 2017 le emissioni medie di CO2 delle auto sono aumentate dello 0,4%, e in 17 Stati membri dell’UE (Unione Europea) sono state superiori rispetto all’anno precedente (Regno Unito (+0,8%), Francia (+0,6%), Spagna (+0,5%), Germania (+0,1%), Polonia (+1,43%) e Paesi Bassi (+2,27%)).

Ovvio, quindi, che la riduzione delle emissioni di CO2 non poteva più essere utilizzato come “goal”, meta, o obiettivo per la tutela dell’ambiente. Quindi, si è deciso di trovare un nuovo vessillo: la plastica. D’improvviso, a livello globale, ci si è accorti dei numeri impressionanti legati all’inquinamento da plastica.

Oltre a Legambiente, anche il WWF (World Wildlife Fund) ha iniziato la propria battaglia contro la plastica usa e getta: lo ha fatto con una campagna dal titolo #GenerAzioneMare. Lo stesso ha fatto l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), che in un report segnala come sia necessario ridurre la nostra impronta ecologica, “privilegiando l’uso di oggetti realizzati in materiali che non ci sopravvivranno”. Questo può essere fatto, ad esempio, acquistando vestiti in fibre naturali.

Lo stesso ha fatto l’Unione Europea, che, anticipando tutti di qualche giorno (grande mossa strategica e di marketing), lo scorso 28 maggio ha presentato un regolamento che riguarda la plastica monouso (entrerà in vigore a maggio 2019). L’Unione Europea ha dichiarato: «Di fronte al costante aumento dei rifiuti di plastica negli oceani e nei mari e ai danni che ne conseguono, la Commissione europea propone nuove norme di portata unionale per i 10 prodotti di plastica monouso che più inquinano le spiagge e i mari d’Europa e per gli attrezzi da pesca perduti e abbandonati».

Anche la scelta di celebrare la Giornata Mondiale dell’Ambiente 2018 in India appare discutibile. È di pochi mesi fa, infatti, la notizia che l’India ha superato la Cina e, ormai, occupa stabilmente il primo posto tra i paesi produttori di inquinamento ambientale (specie quello legato all’anidride solforosa prodotta dalla combustione del carbone, che causa piogge acide, nebbie e molti problemi di salute). Ad attestarlo è una ricerca di scienziati dell’Università del Maryland a College Park in collaborazione con il Goddard Space Flight Center della NASA (National Aeronautics and Space Administration), che firmano un articolo su Scientific Reports.

La realtà è che la plastica si trova ormai ovunque: se ne sono trovate tracce dai ghiacci alle grandi fosse marine, fino a 10 km di profondità (Fossa delle Marianne). Le stime parlano di un aumento di plastica negli oceani di più di 150 milioni di tonnellate ogni anno.

Continuando di questo passo, nel 2025 gli oceani potrebbero contenere una tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesce; nel 2050, poi, negli oceani ci sarà più plastica che pesci. D’altronde, ormai la plastica costituisce il terzo materiale umano più diffuso sulla Terra (dopo l’acciaio e il cemento).

Sperare di risolvere il problema dell’inquinamento da plastica con convegni, conferenze e simili, non risolverà nulla.

Ma non è questo il solo motivo per cui la lotta alla plastica rischia di essere una guerra persa in partenza (quanto e forse più di quella contro la CO2). La produzione mondiale di plastica, infatti, è passata dai 15 milioni del 1964 agli oltre 310 milioni attuali. Si tratta di un settore che solo nei 28 Stati membri dell’Unione Europea occupa 1,45 milioni di lavoratori in 62 mila imprese, per un fatturato di oltre 330 miliardi di euro (con un impatto positivo sulla bilancia commerciale comunitaria per 18 miliardi di euro e un contributo alle casse pubbliche, nei diversi paesi, pari a circa 27 miliardi di euro).

Dati che rendono evidente che non basteranno cene, foto di gruppo e promesse sottoscritte a Nuova Delhi per risolvere il problema.